Memoriale Partigiani
Lara Panconi ricorda Carlo Panconi
Il mio bisnonno Carlo Panconi, nato il 20 ottobre 1925 e morto l'11 luglio 1985 a soli 60 anni, è stato partigiano all'interno del Gruppo di Combattimento "Cremona" nella Seconda Guerra Mondiale. Carlo, sotto il Comando dell'Ottava Armata, ha prestato servizio quando aveva appena 20 anni, partecipando alla battaglia finale contro il nemico nazista e alla liberazione della sua Patria.
È stato in guerra per 4 mesi ed 8 giorni. Il battaglione, era composto da soldati dell'esercito italiano e da molti volontari che venivano per la maggior parte dalla Toscana e dall'Umbria, come Carlo. I mezzi per spostarsi che avevano a disposizione erano Jeep, camion ed i Bren Carrier, ovvero cingolette (mezzi corazzati e leggermente armati).
"Il Cremona" fu inviato nel gennaio 1945 nel tratto di fronte che si estendeva dalla ferrovia Alfonsine-Ravenna al mare. Dal 10 al 13 aprile riuscirono a liberare Fusignano e Alfonsine. Successivamente attraversarono il Po di Volano e il 23 aprile raggiunsero Ariano. Il giorno dopo liberarono Andria e poi fu raggiunta Venezia. Alla fine il bilancio fu terribile: 208 caduti e circa 400 feriti.
Queste informazioni sono state raccolte attraverso la testimonianza di Alessandro Panconi, figlio di Carlo, che ha ascoltato a lungo i racconti del padre e che ha conservato con cura i documenti rilasciati a Carlo dal Quartier Generale dell'Ottava Armata. Inoltre sono stati consultati i siti:
- Il X aprile: festa della liberazione di Alfonsine (racine.ra.it)
- Cimitero militare del Gruppo di Combattimento Cremona del ricostituito Esercito Italiano. Camerlona, Strada Statale 16 (resistenzamappe.it)
Enrico Tei ricorda Ernico Ornano e Giorgio Ornano
Ernico Ornano era il mio bisnonno. Nacque nel 1896 a Firenze e morì nel 1985. Fu un ufficiale dell'esercito, partì per la guerra a 45 anni, nel 1941 e tornò tre anni dopo, nel 1944. Nonostante fosse un ufficiale, si oppose al regime fascista e per questo fu mandato in un campo per prigionieri di guerra in Germania. Tornato dalla prigionia era devastato, più che un umano sembrava uno scheletro ed aveva la testa piena dei ricordi del campo di prigionia dove aveva vissuto per tre anni. Rientrato a casa, raccontò poco o nulla di quel periodo, soprattutto della prigionia, poiché diceva che erano cose troppo terribili da ricordare.
Il figlio di Enrico si chiamava Giorgio, era nato nel 1924. Anche lui era stato chiamato per la leva militare, ma disse qualcosa di offensivo riguardo ai tedeschi e venne mandato a Villa Triste, a Firenze. Nel 1944, al tempo dell'occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, Villa Triste divenne sede della temibile SS-Sicherheintdienst, la polizia politica nazista, ma anche del comando della Banda Carità, il Reparto Servizi Speciali fascista agli ordini del comandante Mario Carità passato alla storia per l'efferatezza dei suoi metodi di interrogatorio. "Villa Triste" fu per l'appunto l'epiteto che la memoria antifascista assegnò a questo luogo, teatro di torture e violenze a danni di resistenti e antifascisti cittadini. Per fortuna Giorgio passò poco tempo a Villa Triste, poiché un medico gli fornì una certificazione falsa per disturbi psichici, grazie alla quale fu trasferito all'Ospedale psichiatrico di San Salvi, a Firenze. Poco dopo riuscì a scappare anche da lì e si diede alla macchia insieme ad un gruppo di partigiani che stavano in una villa, ospiti di un signore della zona. Giorgio tornò a casa alla fine della guerra, e morì nel 1986 a causa di un tumore.
Queste informazioni sono state raccolte grazie alla testimonianza di mia nonna Marilva, figlia di Enrico e sorella di Giorgio.
Alessia Alfano ricorda i martiri della Pievecchia
Mio nonno, Marcello Meli, è nato il 14 giugno del 1943 a Pontassieve. Pontassieve nel 1944 fu bombardata, così come la casa di Marcello e della sua famiglia. Dovettero quindi scappare via, sfollati sulle colline di Pontassieve, alla Pievecchia, dove furono ospitati da una famiglia di contadini. Erano lui, suo padre Adolfo, sua mamma Ines Gensini e i suoi fratelli maggiori, Mario e Lidia. In quegli anni tre uomini della famiglia di contadini della Pievecchia furono uccisi dai tedeschi.
L'8 giugno del 1944 passò dalla Pievecchia un gruppo di partigiani, che aveva rubato delle armi ai carabinieri di Pontassieve. Nello stesso momento due tedeschi erano lì, in una sorta di circolo a bere. I partigiani li videro e spararono. Riuscirono a colpire solo uno di questi due, mentre l'altro riuscì a scappare ed andò ad avvertire altri soldati. I partigiani scapparono e si rifugiarono nel bosco. I soldati nazisti tornarono numerosi e minacciarono di rastrellare tutti i cittadini del borgo, anche se innocenti. Misero tutti al muro di una casa, dividendo gli uomini dalle donne e dai bambini. C'erano due mitragliatrici puntate sulle persone. I bersagli dei Tedeschi erano gli uomini. Fortunatamente il padre di Marcello quel giorno non era alla Pievecchia perché lavorava a Pontassieve come guardia alle cantine Ruffino. In quel momento erano presenti 16 uomini, di cui un ragazzo di 15 anni. Di questi, due riuscirono a salvarsi: uno si nascose nel gruppo di donne, mentre l'altro si lanciò in un campo e scappò riuscendo ad evitare i proiettili. Tutti gli altri 14 uomini, compreso il ragazzo, morirono sotto i colpi delle mitragliatrici: tutti loro sono ricordati come i "14 martiri della Pievecchia".
Tra questi 14 uomini, ce n'erano tre che facevano parte della famiglia che ospitava Marcello. Quel giorno Marcello era presente ma era troppo piccolo per ricordarlo. Tutte queste cose gli sono state raccontate dopo dai suoi familiari, che per tutta la vita hanno continuato a portare nel cuore il dolore e la paura di quel giorno.... Mario, il fratello, ancora oggi.
Queste informazioni sono state raccolte attraverso la testimonianza di mio nonno Marcello.
Irene Ciccarelli ricorda i martiri di Montemaggio
Sono venuta in contatto con la storia dei partigiani di Montemaggio grazie ai racconti del mio nonno materno. All'epoca dei fatti lui era solo un bambino, ma si ricorda bene di questi episodi. I miei bisnonni Guido e Dina, davano un piccolo contributo alla lotta dei partigiani di Montemaggio, portando loro un cesto di provviste ogni giorno in un luogo prestabilito. La mia bisnonna Dina preparava qualcosa da mangiare, lo metteva nel cesto e lo consegnava a suo marito Guido che lo nascondeva vicino ad un albero nel bosco.
Uno zio di mio nonno, molto coraggiosamente, andò con il suo carro, insieme ad altre persone, a prendere i corpi dei partigiani uccisi per restituirli alle loro famiglie. Nei mesi successivi alla strage questo zio andava spesso ad accendere una candela nel luogo dell'eccidio. Quando, nelle sere successive, tornava sul luogo non ritrovava mai la candela perché evidentemente questo gesto di solidarietà verso i partigiani dava fastidio ai fascisti del luogo.
L'ECCIDIO DI MONTEMAGGIO
L'eccidio di Montemaggio, avvenuto il 28 marzo 1944, fu la fucilazione di diciannove partigiani da parte dei fascisti, in località la Porcareccia, sulle pendici del Montemaggio, un rilievo della Montagnola senese, in provincia di Monteriggioni (Siena). Le vittime erano ragazzi giovani che si erano nascosti nei boschi per sfuggire alla leva fascista e per unirsi alle formazioni partigiane della "Brigata Garibaldi" attiva nella zona tra le province di Siena, Pisa e Grosseto.
Due formazioni partigiane, guidate da Velio Mechini (Pelo) e da Mauro Rolandi (Borsa), avevano trovato rifugio a Casa Giubileo una casa di contadini sul Montemaggio.
I partigiani avevano intenzione di compiere degli atti di sabotaggio alle vie di comunicazione per Siena e il 26 marzo 1944 presero prigioniero un ufficiale tedesco e Pietro Brandini (capitano della milizia forestale), che avrebbero voluto scambiare con alcuni detenuti politici che erano stati reclusi nel carcere di Siena. Tentarono inoltre di sequestrare un esponente del fascismo locale, Bramante Lisi, ma non trovandolo in casa portarono via il suo fucile.
All'alba del 28 marzo i militari fascisti, comandati da membri dell'esercito e della Compagnia Giovani, guidati da Lisi, andarono a casa Giubileo e la circondarono intimando ai partigiani la resa. Questi risposero col fuoco, ma rendendosi conto della differenza di forza offrirono di arrendersi in cambio della promessa di avere salva la vita.
La promessa non venne mantenuta…i venti partigiani furono portati in località la Porcareccia, a circa un chilometro da casa Giubileo, per essere fucilati. A tutti furono fatte togliere le scarpe. Uno solo dei partigiani, Vittorio Meoni, riuscì però a fuggire nel bosco ed a mettersi in salvo, nonostante le gravi ferite riportate durante la fuga: si dice infatti che un proiettile gli abbia trapassato un polmone. Per gli altri diciannove partigiani non ci fu nulla da fare e furono uccisi a colpi di mitragliatrice.
Queste informazioni sono state raccolte ascoltando i ricordi dei miei nonni Paolo e Tosca, che fin da piccola mi hanno parlato della Resistenza nella provincia di Siena. Queste storie sono state raccolte anche nei libri:
"Un album di fotografie" di Tosca Barucci
"Altezza mezza bellezza" di Paolo Chesi
Alice Dri ricorda Giovanni Tortoli e Rodrigo Stiacci
Giovanni Tortoli era il mio bisnonno, il padre di mia nonna. E' nato nel 1908 ed è morto nell'aprile del 1983. Ha preso parte alla Resistenza partigiana, nei pressi della città di Fiume (in Croazia). Quando la guerra finì e il fascismo cadde, Giovanni tornò a casa in Toscana, intraprendendo un lunghissimo viaggio a piedi. Di lui non abbiamo più fotografie.
Rodrigo Stiacci era il mio bisnonno, il padre di mio nonno. Anche lui partecipò come soldato alla Seconda guerra Mondiale. Durante la guerra inviava molte lettere a sua moglie: la mia famiglia ne ha conservate alcune.
Queste informazioni sono state raccolte attraverso i racconti dei miei nonni.
Bernardo Pini ricorda i partigiani di Monte Giovi
I primi ricordi di mio nonno, nato all'inizio del 1940, riguardano gli anni di guerra. La sua famiglia, per motivi di lavoro, fu costretta a trasferirsi da Firenze a Monte Giovi, vicino ad Acone, una frazione di Pontassieve. I problemi iniziarono nel '44 quando, dopo lo sbarco degli americani nel Sud Italia, i tedeschi iniziarono una ritirata strategica. Proprio in quella zona, Monte Giovi, operavano vari gruppi partigiani, come il "Gruppo Pontassieve", la brigata "Falerio Pucci" e "Spartaco Lavagnini" in onore del sindacalista ucciso dai fascisti nel 1921. I partigiani organizzavano assalti improvvisi alle truppe tedesche in ritirata, pertanto Monte Giovi era diventato un posto di guerra effettiva, molto pericoloso anche per i civili. Le SS rastrellavano, uccidevano, portavano via tutto quello che trovavano lungo la strada, picchiavano con i calci dei fucili quelli che si opponevano. Mio nonno raccontava che con il tempo, man mano che i partigiani diventavano sempre più attivi e forti, i tedeschi iniziarono ad avere sempre più paura e i rastrellamenti diminuirono. Inoltre a Monte Giovi i partigiani trovarono sempre una generosa accoglienza: gli abitanti di Acone offrivano loro rifugio e collaborazione e a volte dovettero pure subire la vendetta nazifascista, come accadde nell'eccidio della Pievecchia.
Mio nonno ebbe la fortuna di conoscere dei soldati prigionieri di guerra, scappati dal campo di reclusione nazifascista nei pressi della vetta del monte, a Tamburino. Una foto venne scattata a mio nonno in compagnia dei due soldati, che poi trovarono rifugio ad Acone e si unirono al gruppo di partigiani di Monte Giovi.